Storia Università di Messina

Storia

La storia dell’Università di Messina, caratterizzata fin dagli inizi dal complesso rapporto creatosi tra Compagnia di Gesù e classe politica locale, ha inizio, de jure, il 16 novembre del 1548. Quel giorno, infatti, per impulso dei giurati messinesi forti dell’appoggio del viceré Juan de Vega e dell’intervento di Ignacio de Loyola,  il pontefice Paolo III emanava la bolla "Copiosus in misericordia Dominus", che istituiva, sulle rive dello Stretto, la prima Università collegiata gesuitica in Europa. Lo Studium, infatti, era governato, secondo il disposto della bolla pontificia,  dalla Societas Iesu e dal suo preposto generale, che ne sceglieva il rettore-cancelliere, i funzionari e i docenti, mentre sulla città gravava l’onere di finanziare l’istituzione. Circa un mese più tardi, lo stesso Paolo III riconosceva, con la bolla "Summi sacerdotis ministerio", il Collegio gesuitico operante a Messina già dal marzo del 1548. Proprio la peculiarità della fondazione dello Studio doveva ostacolarne il regolare funzionamento per almeno mezzo secolo. La Giurazia messinese, infatti, mal tollerava di essere sostanzialmente esclusa dalla gestione dell'Ateneo che aveva tenacemente voluto. Se, dunque, si profilava, all’interno delle mura urbane, uno scontro aperto fra Compagnia di Gesù e Giurazia per il controllo dell’Università, altrettanto paralizzante si rivelava il contrasto esterno con il "Siciliae Studium Generale" istituito a Catania da Alfonso il Magnanimo, funzionante a partire dal 1445, che rivendicava il privilegio esclusivo di conferire titoli dottorali nell’Isola. Al contrasto con i gesuiti la città rispondeva rigettando il modello del Colegio-Universidad disegnato nella bolla paolina e proponendo, in un primo momento, una forma di gestione mista dell’Università, sancita negli Statuti del 1550, ove lo Studio risultava diviso in due tronconi, uno laico e cittadino (diritto e medicina) gestito dalla Giurazia, l’altro gesuitico (teologia) retto dalla Societas Iesu e, successivamente, nel 1565, ribadendo l’adesione al modello universitario “bolognese” ed escludendo di fatto la Compagnia di Gesù dal controllo sullo Studium. 
Nonostante proprio nel 1565 si avesse una più consistente articolazione dei corsi accademici (precedentemente saltuari e limitati alle sole cattedre fondamentali di diritto e di medicina), con la chiamata di docenti di prestigio come Giovanni Bolognetti per il diritto e Giovan Filippo Ingrassia per la medicina, nonché la presenza di un buon numero di studenti provenienti anche dalla vicina Calabria, purtuttavia lo Studium non poteva conferire lauree, e ciò in attesa che si risolvesse la lite con il SiculorumGymnasiumdi Catania, che si trascinava davanti al tribunale romano della Sacra Rota. La situazione si sbloccava solo quando, nel 1591, Messina, a fronte di un consistente donativo di circa 200.000 onze, otteneva da Filippo II la rifondazione dell’Università con l’esplicita facoltà di conferire titoli dottorali. A quel punto il processo dinnanzi alla Sacra Rota volgeva verso le battute finali. La Giurazia messinese incaricava il doctor iuris napoletano Giacomo Gallo di difendere le ragioni dello Studium Messanae contro la pretesa “privativa di Studio Generale” vantata dall’Università etnea. Il giureconsulto riusciva, con un articolato parere, a convincere i giudici del tribunale romano della fondatezza delle pretese messinesi ottenendo, fra il 1593 ed il 1595, tre sentenze conformi e il riconoscimento, per lo Studio peloritano, della facoltà di
conferire titoli dottorali. Con l’esecutoria viceregia della sentenza definitiva della Rota romana, nell’aprile del 1596, si chiudeva l’annosa questione. Ora lo Studium Messanae era pronto a funzionare regolarmente.

Testimonianza della “nuova fondacione delli Studii” erano i nuovi Statuti redatti nel 1597 per impulso della locale classe politica e commissionati ad un gruppo di dottori di diritto. Il nuovo testo disegnava uno Studium Urbis gestito dalle élites cittadine nei momenti fondamentali come la scelta dei docenti (rigorosamente “forestieri”, almeno per le cattedre più impostanti), del rettore (che, in omaggio al modello universitario italiano era uno studente), dei riformatori (scelti all’interno dei componenti della “mastra” senatoria), del mastro notaro etc. A partire dal 1597 e fino al 1679, anno della sua chiusura, l’Università di Messina riusciva a proporsi, all’interno dello spazio urbano, come tappa centrale del percorso formativo delle élites culturali e politiche cittadine e, all’esterno, come istituzione concorrenziale rispetto al Siculorum Gymnasiumdi Catania. Peraltro, la felice posizione sulle rive dello Stretto doveva favorire lo Studium peloritano rispetto all’Università etnea, rendendolo naturale punto di convergenza da parte di giovani provenienti dalla Calabria e da Malta, secondo l’intuizione che era stata di Ignacio de Loyola. Gli ottant’anni di reale esistenza dell’Università messinese (la prima laurea veniva conferita il 2 dicembre 1599 a Giovan Battista Castelli, in seguito lettore dello Studio e giudice) appaiono caratterizzati dal rinsaldarsi del legame fra la città e lo Studium, in particolare con la facoltà di diritto. Infatti, il progetto di ascesa politica, culturale ed economica tentato da Messina tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento doveva trovare sostegno proprio fra i doctores iuris formatisi nell’Università cittadina, poi giudici del locale tribunale della Curia Stratigoziale o iudicespresso i tribunali centrali del Regno. 
Tanto ai dottori di diritto “stranieri” che reggevano le cattedre più importanti dello Studio e componenti del collegium iuristarum (come il senese Ippolito Piccolomini, il napoletano Giacomo Gallo, il perugino Innocenzo Massini, il padovano Galeotto Ferro, i calabresi Leonardo Amarelli e Ottavio Glorizio), quanto ai giuristi messinesi (come Mario Giurba), impegnati nel giudicato a livello centrale e periferico, la Giurazia (o Senato) poteva commissionare articolate allegazioni che difendessero i privilegi cittadini.

Lo Studium Messanae, controllato sempre più strettamente dal Senato che nel 1641 avrebbe avocato a sé la carica di cancelliere dell’Università sottraendola all’arcivescovo, si presentava, nel corso del Seicento, come un’istituzione peculiare. Laddove, infatti, la facoltà di diritto rappresentava il momento della “conservazione” e della difesa delle prerogative cittadine contro i pretesi attacchi del potere centrale, la facoltà di medicina appariva, in un panorama siciliano dominato dalla tradizione, un “luogo di ricerca attiva” grazie alla presenza di maestri prestigiosi come i bolognesi Giovan Battista Cortesi , Marcello Malpighi, Carlo Fracassati e il matematico napoletano Giovan Alfonso Borelli.
Il “legame organico” fra la città e il suo Studio doveva segnare, inevitabilmente, la storia dell’istituzione universitaria destinata a seguire le sorti della classe dirigente della quale aveva sostenuto la politica autonomistica.  La rivolta contro la Spagna (1674-1678) segnava, infatti, la fine delle velleità messinesi e la città dello Stretto veniva privata, oltre che della sua stessa memoria storica, subendo la confisca dell’Archivio cittadino ove erano custoditi, fra l’altro, i privilegi sui quali si fondava la sua autonomia, anche dello Studio, ovvero del “luogo” di progettazione delle strategie di difesa dell’autonomia cittadina e di formazione di intellettuali organici alle posizioni espresse dall’oligarchia politica.

Ad una riapertura dell’Università di Messina, in seguito a vari, reiterati, tentativi, si giungeva soltanto nel 1838, quando, con decreto del 29 luglio, n. 4745, Ferdinando II di Borbone elevava la locale Accademia Carolina, fondata nel secolo XVIII, al rango di Università. Tuttavia non si può negare che il nuovo Ateneo, lungi dal rispecchiare i fasti del passato, fosse di tono decisamente minore, così come minore era la dimensione politica della città dello Stretto. In base ai “Regolamenti per le tre università della Sicilia” (1841), l’Ateneo messinese veniva ad essere articolato in cinque facoltà (giurisprudenza, teologia, medicina, filosofia e scienze matematiche, letteratura) con un totale di 28 cattedre, più 3 di belle arti. L’istituzione era amministrata da una Deputazione composta da un presidente, dal rettore e dal segretario cancelliere e da quattro membri “temporanei”. Il rettore era scelto dalla Deputazione fra i professori titolari, proposto al governo e nominato dal sovrano. Le cattedre erano assegnate per concorso. Una recente indagine sul Fondo palermitano della “Commissione di pubblica istruzione ed educazione” ha fatto rilevare le difficoltà nelle quali il rifondato Ateneo si trovava ad operare, soprattutto a causa della mancanza di fondi. Tuttavia, ciò non impediva il riproporsi, come nel passato, del legame Università-classe politica cittadina. L’istituzione, infatti, non mancava di partecipare, accanto alla cittadinanza, ad un nuovo appuntamento rivoluzionario, quello del 1847-48, che vedeva coinvolti, solo per fare qualche esempio, Carmelo La Farina, docente di geometria con i figli Silvestro e Giuseppe, gli studenti Francesco Todaro, più tardi senatore del Regno, e Giuseppe Natoli, futuro ministro dell’Istruzione. Una partecipazione che, ancora una volta, doveva segnarne l’esistenza. L’Ateneo, infatti, a dieci anni dalla sua riapertura, veniva nuovamente soppresso. Riaperto due anni più tardi vedeva però sensibilmente ridotto il suo bacino d’utenza a causa di norme limitative che, allo scopo di attuare un più stretto controllo sugli Atenei, imponevano all’Università di non immatricolare studenti provenienti da altre province siciliane e dalla Calabria.
Grazie a tale intervento, con la legge Coppino del 13 dicembre 1885, n. 3572, l’Università di Messina veniva elevata al rango di Ateneo pareggiato di primo grado. Gli ultimi anni del secolo vedevano il moltiplicarsi di iniziative che dovevano fare sperare in un possibile e dignitoso decollo dell’istituzione: si impiantava un nuovo orto botanico, si potenziavano i gabinetti scientifici, si fondavano i musei di mineralogia, di geologia, di zoologia e anatomia comparata.

A partire dall'Unità d'Italia, l'Ateneo messinese non avrebbe mai più chiuso i battenti, nonostante i terribili eventi naturali e bellici che avrebbero caratterizzato la storia della città di Messina nel corso del XX secolo: il devastante sisma del 28 dicembre 1908 e le due guerre mondiali.

La difficile, lunga  e complessa fase di ricostruzione di Messina doveva investire anche l’Ateneo, al centro di una polemica dai toni spesso accesi, fra quanti ne chiedevano la definitiva chiusura e quanti lo consideravano momento centrale del processo di rinascita di Messina. Ancora una volta, la battaglia cittadina per l’Università si sarebbe rivelata vincente.